A tavola non si può parlarne. In generale, come argomento di conversazione, può provocare imbarazzo, riprovazione, o il rischio di un'etichetta freudiana che denota immaturità. La presenza di giovani coppie con neonati può concedere una deroga. Deiezioni e argomenti fisiologici affini sono il nostro ultimo tabù? Ancora oggi, a scrivere "merda" sui giornali ci si pensa due volte. Tutto ciò rivela l'atteggiamento con cui ci poniamo nei confronti dei nostri escrementi, rifiuti da espellere e repellenti

in sé. Anche nella routine: cerchiamo di evitarli, di rimuoverli (e pensare che sono l'impianto portante di innumerevoli numeri comici). C'è chi sul lavoro usa bagni lontani dal proprio ufficio per non farsi riconoscere. Chi aspetta che non ci sia nessuno in giro; chi invece rimanda, quando possibile, gli impegni più grossi a casa. Rumore e odore sono gli ostacoli maggiori. L'eliminazione è una questione da affrontare in separata sede. E con una certa intimità.
La condizione ideale quando si usano i bagni comuni — al netto di un certo esibizionismo — è quella di non essere visti.

Monica Bonvicini, artista italiana trapiantata a Berlino, è partita da questa esigenza per ideare un wc pubblico che è anche un'opera d'arte: Don't miss a sec, installato durante Art Basel 2004, è un cubo di specchi che racchiude una tazza e un lavabo in acciaio: da dentro si può vedere fuori, ma non il contrario. Un principio simile è alla base del lavoro del 2008 del designer
Olivier Rambert: la sua Transparent Toilet (installata a Losanna) ha le pareti in smart glass, un vetro che se stimolato da una scossa elettrica diventa opaco.

L'intimità è tuttavia un valore a doppio taglio. Può essere anche lo schermo dietro al quale si nascondono attività conturbanti e illecite. Sesso e droga, tradizionalmente. Le toilette americane, con le porte aperte sotto, mostrano tutta la tensione che c'è tra privacy e un puritanesimo che impone sorveglianza e separazione: il bagno deve essere tempio di ordine e silenzio. Un luogo di servizio. Discreto, invisibile quasi. Così tanto da a scomparire del tutto? Tra il 1999 e il 2006 il numero delle toilette pubbliche di Londra è diminuito del 40 per cento: chiuse per motivi di sicurezza. «In Inghilterra non si trovano cessi: sono costretto ad andare al bagno da McDonald's», sostiene Jack Sim, fondatore della World Toilet Organization, associazione non-profit che ha l'obiettivo di migliorare le condizioni sanitarie nel mondo. «A New York uso gli Starbucks», gli fa eco il sociologo

Harvey Molotch, della New York University. Un cortocircuito evidente tra pubblico e privato.
Per Molotch la forma dei cessi è lo specchio della società. Nel libro che uscirà a novembre per la New York University Press, Toilet: The Public Restrooms and the Politics of Sharing (di cui anticipiamo un passaggio a pag. 58), il professore argomenta la sua tesi per cui bagni pubblici intelligenti innalzano la qualità della vita. Harvey sostiene che i più grandi architetti funzionalisti si sono dimenticati della toilette perché «l'efficienza razionalista impone di non "abusare" dei bagni, utilizzandoli cioè per fare ciò per cui non sono stati pensati: leggere, piangere, masturbarsi, fumare».

La solitudine del progettista di wc pubblici trova conferma nell'esperienza di Giulio Iacchetti. Il designer italiano ha appena presentato al Salone del Mobile di Milano, all'interno della serie di sanitari Olivia per Globo, un orinatoio: «Ho voluto restituire dignità a un pezzo collaterale mai protagonista — spiega —. Al di fuori della famosa opera di Duchamp non esistono archetipi: mi sono confrontato con un tema poco gettonato dal design industriale ma di massima fruizione e attualità: l'orinatoio permette di risparmiare acqua ed è un oggetto bello, scultoreo. Al Salone ha destato grande interesse. È un progetto che avrà un seguito».

Finora, i progressi maggiori nel miglioramento dei servizi igienici — nei Paesi industrializzati — sembrano soprattutto estetici. Il libro del 2005 di Cristina del Valle Schuster, Designing Public Toilets (Gribaudo editore), raccoglie i migliori esempi che elevano il bagno pubblico a «un'esperienza per i sensi, impregnata di un alto valore artistico». Fate un giro alla Central Library di Rotterdam, al ristorante del Centre Pompidou di Parigi, al Cinecity di Trieste o al quartier generale della Nissan a Tokyo per averne un assaggio.

Secondo Harvey Molotch, la progettazione delle toilette ha tuttavia bisogno di essere ripensata anche nella struttura, a partire dall'idea che, come dicono gli americani, shit happens. Il wc non deve essere vittima di nessuna rimozione: linguistica, progettuale o sociale, come sostiene anche Rose George nel libro appena uscito in Italia per Bompiani Il grande bisogno. Perché non dobbiamo sottovalutare l'ultimo tabù: la nostra ca**a. Le prime a dover cadere sono le convenzioni sociali, sostiene Molotch, a cominciare dalla «discriminante» divisione tra maschi e femmine. Perché c'è sempre la fila di fronte ai bagni femminili? Perché a parità di wc gli uomini hanno spesso a disposizione anche una parete di orinatoi. Inoltre, i maschi sono anatomicamente incoraggiati a utilizzare gli spazi pubblici per gestire la vescica. Cosa impossibile per il gentil sesso. «Per avere le stesse opportunità degli uomini le donne hanno bisogno di più spazio», incalza Jack Sim. «Fa parte della loro biologia. E della nostra struttura sociale, visto che spesso una mamma porta con sé anche i figli», conclude Harvey. Nei negozi di Ikea, colosso per natura attento alla famiglia, la dimensione dei bagni e il numero di wc dedicati a maschi e femmine variano. «Le donne rappresentano oltre il 60 per cento dei visitatori — spiegano dall'azienda — e poi trascorrono più tempo in bagno». Diverse caratteristiche generano esigenze diverse, predicano da anni gli studi di genere.

«La forma dei bagni — ribadisce Molotch — è una questione di giustizia sociale. È in fondo la stessa idea degli Apple Store: se sei in un ambiente accogliente forse eviti di diventare un terrorista». Anche la diffusione delle toilette a pagamento pone un problema di diseguaglianza: «Perché un'anziana signora dovrebbe pagare di più — continua Molotch — solo perché ha la vescica poco compiacente? Privatizzare lo spazio urbano dei bagni significa renderli un lusso, quindi non accessibili a tutti. Eppure la necessità di un wc è qualcosa che ci rende tutti uguali: è la nostra anima primitiva che emerge anche se non la vogliamo vedere. Tiriamo l'acqua prima di renderci conto di quel che è un nostro prodotto».

In fondo, pensandoci, non ci resta che diventare consapevoli della nostra cacca. Dopo esserlo diventati dell'ambiente, del cibo, degli abiti. È esattamente in questa direzione che si colloca la compost toilette: un wc che permette di raccogliere le deiezioni e di trasformarle in concime organico tramite la decomposizione aerobica. Un principio primordiale. Commercializzato in Svezia a partire dagli anni Sessanta, è un sistema che non ha bisogno di molta acqua, ma solo di un po' di pazienza: non demanda ad altri lo smaltimento dei residui privati ma li lascia alla responsabilità personale. Soluzione impraticabile nelle città? Rivoluzione del futuro? Suggestione per pochi invasati? L'unica certezza, quando nascerà ufficialmente il movimento di Slow Shit, è la faccia delle nostre nonne contadine. Che diranno: oh no, di nuovo?

 

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